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Alzheimer: servizi al palo mentre crescono le diagnosi fatte dai centri privati

Dal 2015 al 2023 la quota di caregiver o di pazienti con disturbi cognitivi o inizio di malattia di Alzheimer che affidano la diagnosi ad un servizio privato (neurologo, geriatra o altro specialista) è raddoppiata dal 13,7% al 27,8%. I servizi pubblici, che pure restano il principale riferimento nella diagnosi e cura della malattia, risultano ancora molto lontani dalle reali necessità e dai bisogni generati da una patologia che stravolge la vita non soltanto del paziente, ma anche di chi gli sta accanto.

Sono questi alcuni degli spunti contenuti nel 4° Rapporto Censis-Aima, ricerca campionaria sui malati di Alzheimer e i loro caregiver. Per la precisione, si tratta di un percorso di ricerca che si aggiorna periodicamente e che nell’ultima edizione si è focalizzato sull’impatto avuto dal Covid.

La pandemia ha inevitabilmente indotto un peggioramento delle condizioni dei pazienti legato all’isolamento. Nelle fasi più acute sono spariti, giocoforza, anche i famigliari, e le cerchie si sono ristrette. Ma il dato vero è anche anche la ripresa post-Covid ha lasciato sul campo effetti negativi sia sul piano sanitario che in quello delle relazioni sociali.

Si pensi soltanto alla carenza di medici base, che rappresentano la figura con cui interfacciarsi per accedere ai servizi sanitari pubblici. Il risultato è che, ancora oggi, sono necessari, in media, almeno due anni per arrivare ad una diagnosi. Tante sono le difficoltà e anche gli errori da superare.

Solo il 40% dei pazienti risulta assumere farmaci specifici per la patologia. Normalmente, i caregiver apprezzano soprattutto i medicinali che agiscono sui disturbi di comportamento, fornendo l’impressione di una miglioramento generale delle condizioni del paziente.

Sempre in tema di persistenze, non è cambiato nemmeno il profilo del caregiver che è quasi sempre donna: figlie che aiutano i genitori, mogli che aiutano i mariti. Il sacrificio fornisce la sensazione di sentirsi “utili”, ma le nuove incombenze di cura e assistenza inducono ad una completa revisione delle priorità. E spesso si finisce per sentirsi, a propria volta, soli e abbandonati.

Nell’opinione dei caregiver non c’è un’unica soluzione all’assistenza del proprio caro. Badante, centri per i disturbi cognitivi e le demenze (Cdcd), assistenza domiciliare integrata, centri diurni, cerchie parentali, volontariato: nel sistema sanitario italiano prevale sempre l’arte di districarsi (e arrangiarsi) tra spezzoni di servizi che comunque vengono percepiti come residuali o marginali rispetto ai bisogni concreti, facendo affidamento, quando possibile, sulla disponibilità delle persone che ci sono vicine o che ci esprimono solidarietà.

Una delle condizioni più drammatiche tra i pazienti riguarda gli anziani malati che vivono soli e sono privi di queste cerchie di sostegno e aiuto. In larga prevalenza si tratta di donne.

Il combinato disposto di tutte queste carenze del sistema di cura è che le famiglie che affrontano tali patologie devono sborsare sempre di più di tasca propria: dal 2015 al 2023 i costi per l’assistenza socio-sanitaria out-of-pocket (espressione che significa letteralmente: di tasca propria) sono cresciuti del 15%.

Per approfondire:

Immagine di rawpixel.com su Freepik

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